Ecco perché è il momento di rivedere le priorità del green deal

Dopo 5 anni, il Green Deal è al centro di un ampio confronto sulla sua efficacia per contrastare il cambiamento climatico e sul rapporto tra i costi e i benefici per l’Europa. E dopo 5 anni l’Europa si confronta con i costi degli eventi climatici estremi che aumentano in frequenza e intensità, mentre si riduce la competitività dell’economia europea nei mercanti emergenti dell’innovazione tecnologica e della decarbonizzazione.

Con un lungo articolo di Corrado Clini, che è stato Ministro dell’Ambiente, apriamo un dibattito informato per favorire un dialogo tra la politica, l’economia, gli esperti e le associazioni, con l’ambizione di individuare le soluzioni migliori per la convergenza della protezione dell’ambiente con la crescita sostenibile.

Il cambiamento climatico globale
COPERNICUS CLIMATE CHANGE, il programma di osservazione della Terra dell’Unione Europea che da 25 anni aggiorna ogni mese i dati sulle temperature, sul ciclo idrologico e sullo stato dei ghiacciai, ha rilevato che il 2024 è stato l’anno più caldo negli ultimi 175 anni, dall’inizio della rivoluzione industriale con un aumento della temperatura media che ha superato 1,5°C ovvero l’obiettivo indicato dall’accordo di Parigi.

L’Agenzia per gli Oceani e l’Atmosfera (NOAA) del governo USA, in collaborazione con NASA ha aggiornato ogni mese dal 2000 (anche durante la presidenza Trump 2016-2020) i dati sui cambiamenti climatici globali e regionali. Il 2024 Global Climate Report, pubblicato il 12 gennaio 2025, è “allineato” sui dati di Copernicus.

Le mappe pubblicate da NOAA mettono in evidenza sia le variazioni di temperatura rispetto ai valori medi del periodo 1990-2020, sia le “anomalie climatiche” e gli eventi climatici estremi principali registrati nel 2024.
L’aumento della temperatura e i suoi effetti

Come si vede, l’aumento della temperatura è stato maggiore nell’emisfero settentrionale del pianeta: +1,84°C in inverno, + 1,61°C in primavera, + 1,52°C in estate.

È rilevante l’aumento della temperatura nella regione Artica che ha raggiunto 2,71°C , con l’accelerazione e l’estensione dello scioglimento dei ghiacci. La NASA ha rilevato che alla fine dell’estate l’estensione dei ghiacci era pari a circa 100.000 km. quadrati contro i 2,5 milioni del 2020. Allo stesso modo è proseguita la riduzione della calotta artica della Groenlandia per il 28° anno consecutivo. Gli effetti molteplici dello scioglimento dei ghiacci nell’Artico e in Groenlandia sono ambientali ed economici:

l’aumento del livello dei mari con effetti sia sulle città costiere e le infrastrutture portuali, sia sulle riserve di acque dolci esposte alle infiltrazioni saline con effetti diretti sull’agricoltura. La NOAA ha stimato che entro il 2030 il livello medio salirà di 30 cm, con aumento della frequenza e intensità delle inondazioni costiere e danni crescenti nell’ordine di centinaia di miliardi$. Ma se dovesse proseguire al ritmo attuale lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia, è stato stimato che un aumento del livello del mare di oltre 1 metro potrebbe determinare effetti importanti su 12 dei principali porti petroliferi mettendo a rischio la filiera petrolifera mondiale attuale.
la riduzione della salinità dell’acqua nell’Atlantico del nord, con effetti sulla efficacia della corrente del Golfo (Atlantic Meridional Overturning Circulation -AMOC) e il prevedibile abbassamento delle temperature nell’Europa Settentrionale e nello stesso bacino del Mediterraneo.
lo scioglimento del permafrost, con emissioni massicce del metano, che ha un elevato potere di riscaldamento dell’atmosfera, sequestrato da millenni nel ghiaccio.
l’aumento del traffico navale nel passaggio a Nord Ovest.
l’estensione delle attività estrattive di petrolio e gas nell’Oceano Artico.
lo sfruttamento delle riserve energetiche e dei minerali critici della Groenlandia con i conseguenti impatti ambientali in zone fino ad oggi incontaminate.

Il cambiamento climatico sta trasformando Oceano Artico e Groenlandia in una delle zone più contese del pianeta, con significative conseguenze geopolitiche che coinvolgono USA, Canada, Russia, Cina, Danimarca e Norvegia.

La “nuova normalità” del clima

Le anomalie e gli eventi climatici estremi del 2024 , sono in gran parte in continuità e sovrapponibili ai dati dei Global Climate Report di NOAA negli ultimi 10 anni, e rappresentano la “nuova normalità del clima” caratterizzata da tre fenomeni tra loro concatenati : aumento della temperatura – in particolare dei mari e degli oceani – , associato alla maggiore frequenza e intensità di fenomeni estremi ( uragani, piogge torrenziali circoscritte in un breve periodo di tempo, inondazioni, siccità prolungate), ed allo scioglimento accelerato dei ghiacci in Artico, Antartide, Tibet Plateau, Alpi, con perdite di vite umane e danni rilevanti per infrastrutture e insediamenti urbani, alluvioni, incendi, erosione costiera, riduzione delle produzioni agricole e della pesca.

Un recentissimo studio del National Bureau of Economic Research (NBER USA – The Macroeconomic Impact Of Climate Change. November 2024) ha rilevato, sulla base di un’analisi aggiornata delle serie storiche degli eventi estremi, che per ogni grado di aumento della temperatura media del pianeta è prevedibile una riduzione del Prodotto Interno Lordo nell’economia globale, con effetti disastrosi nel Sud Est Asiatico e Africa Sub Sahariana (fino a – 20%), e riduzioni comunque significative negli USA (fino a -10%) ed Europa (fino a – 7%).

La decarbonizzazione non impedirà gli effetti del cambiamento climatico già in atto e nei prossimi decenni. L’aumento della temperatura è attribuito alla crescita della concentrazione in atmosfera dei gas ad effetto serra (CO2 e metano principalmente) provocata negli ultimi 175 anni prevalentemente dall’impiego dei combustibili fossili, e di conseguenza la decarbonizzazione dell’economia è la strategia giusta per limitare la crescita della temperatura.

Dal 1992, quando fu sottoscritta la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, e fino all’accordo di Parigi del 2015, la riduzione delle emissioni e la decarbonizzazione sono state le priorità dei negoziati internazionali e delle misure adottate dalle economie sviluppate e dalla Cina.
L’obiettivo era quello di ridurre le emissioni per limitare la crescita della temperatura, al fine di prevenire e rallentare l’accelerazione degli eventi climatici estremi prevista attorno alla metà del secolo (2040-2050). Purtroppo, le cose non stanno andando come previsto:

la concentrazione di CO2 in atmosfera continua a crescere. Le osservazioni di NOAA e NASA consentono di rilevare la corrispondenza – negli ultimi 50 anni – tra la crescita della concentrazione in atmosfera e l’aumento della temperatura.

• i tempi di permanenza in atmosfera di CO2 sono di almeno 100 anni mentre quelli del metano di almeno 20: ovvero, l’effetto dei due gas ad effetto serra già accumulati in atmosfera negli ultimi 40 anni è all’origine della crisi climatica in atto che è destinata a continuare per decenni. Come ricordato nella premessa della Strategia per l’Adattamento e la Resilienza dell’Europa ai Cambiamenti Climatici approvata nel 2021: “arrestare tutte le emissioni di gas a effetto serra comunque non impedirà gli effetti dei cambiamenti climatici che sono già in atto e che proseguiranno per decenni”.
diversamente dalle previsioni, negli ultimi 10 anni “ Ondate di calore da record sulla terraferma e nell’oceano, piogge torrenziali, forti inondazioni, siccità prolungate, incendi estremi e inondazioni diffuse durante gli uragani stanno diventando sempre più frequenti e più intense” (NASA, 23 ottobre 2024).

Inversione delle priorità? Un multilateralismo che non funziona.
I dati impongono una necessaria revisione delle strategie e degli obiettivi della politica climatica delle Nazioni Unite e delle istituzioni multilaterali, perché se la decarbonizzazione è la strada giusta per limitare la crescita della temperatura nel medio-lungo periodo, la crisi climatica in corso richiede misure urgenti e prioritarie per la protezione e la sicurezza dei territori. Ma così non avviene.

Il terzo Rapporto del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite coordinato da Nicholas Stern, “Independent High-Level Expert Group on Climate Finance”, consegnato alla COP 29 di Baku nel novembre scorso, ha stimato un fabbisogno globale di investimenti per l’adattamento ai cambiamenti climatici e la riparazione dei danni dagli eventi estremi pari a circa 2.200 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, di cui 800 nelle economie avanzate, 200 in Cina e 1.200 nei paesi in via di sviluppo.
La stima dei fabbisogni finanziari tiene conto dei costi necessari per la protezione delle coste dove si concentra oggi il 30% circa della popolazione mondiale, la fornitura di acqua nelle regioni del pianeta affette più stabilmente da lunghe siccità e origine principale delle migrazioni, la protezione delle foreste e della biodiversità, la prevenzione e protezione delle infrastrutture urbane dalle inondazioni e dagli incendi… È stato stimato che, a fronte di questi investimenti, i costi evitati potrebbero ammontare entro il decennio al 15-18% del PIL globale.

E di conseguenza sarebbero necessari un programma e una governance che in 10 anni garantiscano non solo l’erogazione dei finanziamenti ma anche un modello di azione coordinato tra il Segretariato della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, le istituzioni finanziarie multilaterali (Banca Mondiale, Asian Development Bank, Asian Infrastructure Investment Bank, African Development Bank, Banco InterAmericano di Sviluppo), i Fondi di Investimento privati e i Governi nazionali.
Ovvero, l’accelerazione della crisi climatica richiede una revisione del modello multilaterale di governance, che risale ai primi anni 2000 e che è prevalentemente finalizzato alla riduzione delle emissioni e dell’impiego dei combustibili fossili.

La COP 29 di Baku è la dimostrazione più recente dell’esigenza di modificare le istituzioni multilaterali create per affrontare la crisi del cambiamento climatico. Il segretario all’energia della Gran Bretagna ha richiamato le difficoltà del meccanismo della Conferenza delle Parti (“una partita a scacchi a 198 dimensioni”) che non riescono ad assumere decisioni.

I prestigiosi firmatari della lettera resa nota a Baku il 15 novembre 2024 hanno chiesto una profonda riforma del meccanismo della COP, per adeguare le procedure negoziali alla necessità di assumere decisioni corrispondenti alla sfida dei cambiamenti climatici (l’ex segretario Onu Ban Ki-Moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex segretaria della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici Christiana Figueres). In altre parole, viene rilevata l’esigenza di superare il vincolo dell’unanimità che è di fatto l’autorizzazione a un diritto di veto.

Adattamento e transizione energetica sono due pilastri della stessa strategia.

La COP 29 non è stata in grado di dare il giusto rilievo all’urgenza dell’adattamento ed alla necessaria cooperazione internazionale per proteggere le regioni più vulnerabili del pianeta.
Richiamando l’affermazione di Chandni Raina, la rappresentante dell’India alla COP 29, l’accordo di Baku per l’erogazione di 300 miliardi all’anno ai paesi in via di sviluppo è un’illusione ottica, non solo per la ridotta dotazione finanziaria ma anche perché i fondi sono prevalentemente finalizzati alla transizione energetica mentre viene lasciata in secondo piano l’urgenza delle misure per affrontare la crisi climatica: un’inversione delle priorità che allontana le istituzioni multilaterali dalla realtà.

Un caso evidente dell’inversione delle priorità è la California, una delle maggiori economie avanzate del pianeta: nell’ultimo anno gli investimenti per la prevenzione e il controllo degli incendi facilitati da condizioni climatiche critiche (infrastrutture per la disponibilità, la fornitura e l’uso efficiente delle acque, servizi di previsione e pronto intervento, modifica delle costruzioni non ignifughe, reti elettriche) sono stati 2,6 miliardi$ contro 14,7 miliardi per i veicoli a emissioni zero.
La stima dei danni, secondo Los Angeles Times, raggiunge 250 miliardi$.
Ovvero, la mancata prevenzione ha generato danni circa 20 volte superiori agli investimenti per la transizione energetica.

La “lezione” della California dovrebbe essere un riferimento a livello globale, e in particolare in Europa che ha visto crescere negli ultimi anni i danni della crisi climatica ma ha continuato ad avere come priorità la decarbonizzazione di un’economia che ha già raggiunto le migliori performances al mondo in termini di riduzione dell’intensità di carbonio.

 

Il cambiamento climatico in Europa e l’inversione delle priorità nel Green Deal

Nel pacchetto del Green Deal è compresa la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, approvata del Parlamento Europeo nel 2021. Ma le misure di adattamento necessarie per far fronte all’accelerazione in Europa nella frequenza e nell’intensità degli eventi climatici estremi restano ai margini delle politiche europee e a carico prevalentemente dei singoli Stati Membri.

I dati pubblicati dall’Agenzia Europea dell’Ambiente e dal Joint Research Center della Commissione Europea rilevano che

nell’ultimo decennio la temperatura in Europa è cresciuta più velocemente rispetto alle altre regioni del pianeta: l’aumento è di circa 2,5°C, già un grado oltre il “limite di sicurezza” di 1,5°C indicato dalla comunità internazionale;
la temperatura superficiale del mare Mediterraneo è stata la più alta di sempre nel biennio 2023-2024, ed è considerata la causa dei forti cicloni mediterranei (medicanes) che hanno devastato Valencia in Spagna e Derna in Libia;
oltre allo scioglimento dei ghiacci nella Regione Artica europea, i ghiacciai delle Alpi hanno perso il 10% del loro volume negli ultimi 2 anni (Copernicus Climate Change Service -C3S);
crescono i danni provocati dagli eventi climatici estremi (siccità, tempeste di acqua e vento, allagamenti, ondate di calore) sia in perdite di vite umane, sia in danni rilevanti alle infrastrutture ed agli insediamenti urbani, senza considerare la crisi di produttività agricola. Le inondazioni del 2024 nei paesi del Centro Europa hanno coinvolto un’area molto più estesa rispetto al 2002, mettendo tra l’altro in evidenza che i tempi di ritorno di questi eventi estremi si sono molto “avvicinati” rispetto al secolo scorso. Lo stesso si può dire per le alluvioni ripetute in Romagna e nelle Marche in Italia. (Copernicus Climate Change Service -C3S ).


il costo medio annuale degli eventi estremi in Europa ha superato nel triennio 2021-2023 52 miliardi$, ben oltre i livelli previsti nel caso in cui l’aumento della temperatura media del pianeta fosse contenuto in 1,5 °C : il Joint Research Center della Commissione Europea aveva stimato che il costo nel 2050 avrebbe raggiunto € 40 miliardi/anno. Il costo medio per abitante in Europa è stato di circa di € 120, con molte variazioni: in Italia si è raggiunto il valore record di € 284, in Spagna di € 221, in Ungheria € 214 (European House Ambrosetti).

Considerando la tendenza attuale dell’aumento della temperatura (2-3°C) si può prevedere il raddoppio dei costi annuali entro la prossima decade. In particolare, nel caso in cui non venissero adottate misure adeguate di prevenzione dei rischi connessi all’aumento del livello del mare, il costo annuale per le inondazioni costiere dell’Europa potrebbe aumentare fino a 150 miliardi$.
A fronte di questi dati, e nonostante la “Strategia Europea di adattamento ai cambiamenti climatici” approvata del Parlamento Europeo nel 2021, nel “pacchetto” Green Deal le misure e i finanziamenti per l’adattamento hanno un ruolo marginale rispetto alle misure per la decarbonizzazione : il 10-15% del totale dei fondi di Next Generation EU.

Ovvero, le misure per la protezione del territorio dagli eventi climatici estremi sono prevalentemente a carico dei singoli Stati Membri, e di conseguenza l’efficienza delle misure è condizionata dalla disponibilità delle risorse nazionali: questa è la ragione del progressivo “climate divide” che sta introducendo un nuovo fattore di divisione in Europa.

In Italia, il Rapporto 2023 di Coldiretti sugli effetti del cambiamento climatico è un’ottima rappresentazione dei rischi e dei danni per un settore sensibile e vulnerabile: “ Siamo di fronte ad una evidente tendenza alla tropicalizzazione con l’aumento delle temperature che è accompagnato in Italia da una più elevata frequenza di manifestazioni violente, sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi ed intense ed il rapido passaggio dal caldo al maltempo.

Aumento di temperatura media nel 2024 rispetto al periodo 1991 – 2020. Dati ISAC CNR
L’agricoltura ha fatto registrare nel 2023 una annata nera con danni che, tra coltivazioni e infrastrutture, superano i 6 miliardi a causa dei cambiamenti climatici con un taglio del 20% della produzione di vino mentre il calo per la frutta arriva al 30% per le pesche e al 63% per le pere, ma ad essere praticamente dimezzato è anche il raccolto di miele con le api che sono vere e proprie sentinelle dello stato di salute dell’ambiente.
L’anno è stato segnato prima da una grave siccità che ha compromesso le coltivazioni in campo e poi per alcuni mesi dal moltiplicarsi di eventi meteo estremi e precipitazioni abbondanti ( una media di oltre 9 eventi estremi al giorno lungo la Penisola) che si sono alternati al caldo torrido al quale ha fatto seguito un autunno mite ma con violenti nubifragi che hanno devastato città e campagne per poi finire con un inizio inverno bollente che ha mandato in tilt le colture”.

Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini ha rilevato che “I cambiamenti climatici impongono una nuova sfida per le imprese agricole che devono interpretare le novità segnalate dalla meteorologia e gli effetti sui cicli delle colture, sulla gestione delle acque e sulla sicurezza del territorio. Un obiettivo che richiede un impegno delle Istituzioni per accompagnare innovazione dall’agricoltura 4.0 con droni, robot e satelliti fino alla nuova genetica green no ogm ma servono anche investimenti per la manutenzione, risparmio, recupero e regimazione delle acque con un sistema diffuso di piccoli invasi che possano raccogliere l’acqua in eccesso per poi distribuirla nel momento del bisogno.”

Aggiornare le priorità del Green Deal

1. Proteggere i territori dell’Europa dagli eventi climatici estremi

I dati suggeriscono che la priorità per l’Europa è la protezione dei suoi territori dagli eventi climatici estremi.
Le misure per l’adattamento sono trasversali a tutti i settori dell’economia e, diversamente da quanto avvenuto fino ad ora, non sono le “pezze” per ristabilire la situazione preesistente ma il risultato di progettazione e tecnologie innovative per modificare gli usi del suolo e le infrastrutture” critiche” del secolo scorso e dei secoli precedenti che non reggono l’impatto del nuovo regime climatico :

adeguare o rilocalizzare le infrastrutture (acqua, energia, ferrovie e autostrade, reti elettriche) esposte ad alluvioni e frane;
proteggere le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico dall’erosione e dall’innalzamento del mare (l’Italia conosce le difficoltà e i costi del MOSE di Venezia);
de-cementificare le aree urbane per aumentare il drenaggio delle acque di pioggia;
conservare le acque di pioggia con bacini di laminazione;
realizzare desalinizzatori dell’acqua del mare per assicurare la fornitura di acqua per agricoltura e industria in periodi di siccità;
proteggere gli ecosistemi naturali e le produzioni agricole della regione mediterranea e del sud Europa anche con l’impiego di colture resistenti alla tropicalizzazione e al degrado dei suoli;
proteggere gli ecosistemi naturali nelle regioni montuose (Alpi, Pirenei, Carpazi) dai rischi di desertificazione per lo scioglimento dei ghiacciai;
proteggere le foreste dalle già estese patologie connesse alla combinazione dello stress termico con l’azione di parassiti e insetti, e riforestare le aree devastate dagli eventi climatici estremi;
assicurare servizi efficienti e ben distribuiti per affrontare le crisi sanitarie provocate dalle ondate di calore.

2. Un debito comune per la resilienza ai cambiamenti climatici: un suggerimento per la Bussola della Competitività di von der Leyen e il Rapporto Draghi.

La prevenzione dei rischi e dei danni degli eventi climatici estremi è un’urgente priorità, perché la resilienza dell’Europa è l’infrastruttura necessaria per trasformare i costi sociali ed economici delle riparazioni in investimenti per la sicurezza, la modernizzazione e la competitività dell’economia europea.

La Bussola della Competitività 2025 presentata da Ursula von der Leyen e il Rapporto Draghi 2024 mettono in evidenza il ruolo della ricerca e sviluppo e dell’innovazione per la convergenza di decarbonizzazione e competitività. Ma dimenticano che la resilienza ai cambiamenti climatici è non solo un fattore condizionante per lo sviluppo, ma anche un driver di innovazione perché gran parte delle misure per proteggere l’Europa dagli eventi estremi richiede la ricerca e l’applicazione di soluzioni innovative nell’ingegneria, nell’uso dei materiali, nella gestione delle risorse naturali, nelle produzioni agricole.

Considerando i dati attuali e le previsioni, è necessario prevedere nel bilancio europeo un investimento annuale non evitabile di almeno 100 miliardi€ di risorse pubbliche, che dovrà essere assicurato per il tempo necessario (almeno 10 anni) a realizzare gli interventi necessari per proteggere l’Europa dai cambiamenti climatici.

È necessario un programma europeo, finanziato con fondi comuni e gestito in modo coordinato al fine di assicurare la realizzazione delle misure di adattamento in tutti gli Stati Membri, ed evitare che il cambiamento climatico diventi un ulteriore fattore disgregante per l’unità dell’Europa. Questa è anche la strada per colmare il solco del “climate divide” già in corso tra i paesi europei che devono affrontare gli eventi climatici estremi prevalentemente con le risorse dei bilanci nazionali.

3. Evitare la doppia dipendenza della decarbonizzazione

Quando la Commissione Europea ha lanciato il Green Deal nel dicembre 2019, il percorso “lineare” verso la decarbonizzazione era supportato da due riferimenti “sicuri”:
l’approvvigionamento di gas dalla Russia per sostituire il carbone e come back-up delle fonti rinnovabili, previsto in espansione con la realizzazione del Nord Stream 2 per rifornire direttamente la Germania;
collaborazione con la Cina sia per l’approvvigionamento di materie prime e prodotti, sia per lo sviluppo congiunto di tecnologie innovative nel quadro della consolidata cooperazione sul cambiamento climatico avviata nel 2013 con l’Agenda Strategica UE-CINA 2020.

Ma in due anni il contesto globale nel quale era collocato il Green Deal è rapidamente cambiato.

REPowerEU e FITfor55 dopo l’invasione dell’Ucraina: gas, rinnovabili e reti elettriche.

Tra il 2022 e la metà del 2023, l’Europa ha dovuto avviare rapidamente la sostituzione del 45% delle sue forniture di gas naturale provenienti dalla Russia ed adeguare il quadro di riferimento per la sicurezza energetica della UE. A questo fine è stato approvato nel maggio 2022 REPowerEU, finalizzato prioritariamente a
eliminare le importazioni russe di gas e diversificare gli approvvigionamenti,
risparmiare energia,
completare il “pacchetto Fit for 55” per la decarbonizzazione dell’Europa, con l’aumento della quota di energie rinnovabili nel consumo energetico complessivo dell’UE, e l’attuazione delle misure per la riduzione dei consumi di combustibili fossili e delle emissioni di CO2 nei settori industriale, dell’automotive e delle costruzioni.

Dopo due anni, gli effetti di REPowerEU si rilevano sul mix energetico, sull’elettrificazione “attesa” degli usi finali dell’energia, sulla integrazione delle reti elettriche transeuropee:
nel 2024 il gas da gasdotto copre il 67% delle importazioni, ed è fornito prevalentemente dalla Norvegia, dall’Algeria, da Azerbajan e in una quota pari all’8% dalla Russia;
la produzione europea ha coperto il 14% della domanda;
il GNL ha coperto il 33% delle importazioni, fornito per il 40% dagli USA, per oltre il 30% dalla Russia, seguita da Qatar, dall’Algeria e altri paesi. Sono rilevanti sia la riduzione del GNL USA rispetto al 2023 (circa il 10%) sia la crescita di importazioni dalla Russia in controtendenza rispetto all’impegno di azzerare la dipendenza europea entro il 2027.
le energie rinnovabili hanno rappresentato il 47% di tutta la produzione di elettricità: energia solare ed eolica (28%), idroelettrico (15%), bioenergie (4%), contro carbone e gas (26%). Il nucleare ha coperto il 24% ed è la singola fonte più importante per la generazione di elettricità a emissioni zero.


sono state avviate le iniziative per la produzione di 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile entro il 2030 e l’importazione di altrettante tonnellate dal Nord Africa, con la costruzione di idrogenodotti per almeno almeno 20.000 chilometri. L’Italia ha appena aderito al SouthH2 Corridor, che partirà dall’Algeria;
nel pacchetto “Fit for 55” l’elettrificazione degli usi finali dell’energia, combinata con la produzione di elettricità da fonti rinnovabili pari al 65% nel 2030 e all’85% nel 2050, è un obiettivo chiave per la progressiva riduzione dei combustibili fossili in tutti i settori. Contribuiscono all’obiettivo, in misura minore, idrogeno e bioenergie.
L’elettrificazione è l’infrastruttura principale per dare attuazione alle direttive ed ai regolamenti europei per il settore dell’auto, la riduzione dei consumi energetici nell’edilizia e nell’industria.


l’elettrificazione richiede un aumento della produzione di elettricità, stimato in circa il 60% entro il 2030, con la crescita della capacità di produzione di energia eolica e solare dai 400 GW del 2022 ad almeno 1.000 GW entro il 2030.
All’aumento della produzione dovranno corrispondere l’espansione e l’ammodernamento delle reti elettriche, sia per la trasmissione transfrontaliera che per la distribuzione.
La Commissione Europea ha stimato che entro il 2030 serviranno circa 584 miliardi di € di investimenti. Sono previsti 8 corridoi europei elettrici prioritari che utilizzeranno le reti a corrente continua ad altissimo voltaggio (UHVDC).

Gli investimenti nella trasmissione saranno finalizzati in particolare al trasporto dell’elettricità prodotta dalle fonti rinnovabili al fine di ottimizzare l’impiego dell’ energia solare ed eolica in tutta Europa indipendentemente dal luogo di produzione.
Gli investimenti nella distribuzione saranno finalizzati prioritariamente alla digitalizzazione e cybersicurezza delle reti, anche considerando che il 40% di queste ha più di 40 anni.

4. Contraddizioni e colli di bottiglia

Un’Europa a GNL? Il rischio di una nuova dipendenza

Per effetto delle misure di efficientamento e dell’aumento dei prezzi, il consumo di gas in Europa nel 2024 è diminuito del 6% rispetto all’anno precedente. Le proiezioni confermano un trend di riduzione per effetto delle misure di “Fift for 55” . Questi dati non tornano con le previsioni di crescita del consumo di GNL entro il 2030 e con i relativi progetti di ampliamento della capacità di stoccaggio. Secondo un recente rapporto di Institute for Energy Economies and Financial Analysis (IEEFA), nel 2030 la capacità dei terminali in progettazione potrebbe essere superiore di oltre il 76% rispetto alla domanda.
L’eccesso di capacità è in conflitto sia con l’assetto della rete dei gasdotti, sia con la crescita delle fonti rinnovabili per la generazione di elettricità e l’impiego dell’idrogeno verde nelle attività industriali. Senza dimenticare il rischio di una dipendenza dai fornitori di GNL per adeguare la domanda all’eccesso di offerta.

Reti elettriche e fonti rinnovabili

La crescita delle fonti rinnovabili deve essere parallela a quella delle reti elettriche transeuropee.
Sta emergendo una diversa “velocità”, con un eccesso di produzione di energia da fonti rinnovabili non trasmissibile per un deficit di capacità delle reti. Ovvero, c’è il rischio di produrre elettricità verde che non verrà utilizzata. Lo sviluppo delle reti in Europa non sembra seguire il ritmo di crescita delle fonti rinnovabili. (Agenzia Internazionale dell’Energia- 2023)

Elettricità da fonti rinnovabili senza la Cina?
Dalla dipendenza alla cooperazione. Il partenariato strategico Italia-Cina

La crescita del settore europeo delle energie rinnovabili richiede minerali critici (CRM) e terre rare. Questo è il “collo di bottiglia” per cambiare la matrice energetica in tutti i settori, dall’elettricità alla mobilità, dall’edilizia all’agricoltura. Oggi l’Europa importa la maggior parte del suo fabbisogno di minerali critici e terre rare principalmente dalla Cina, che è il maggiore produttore mondiale: nel 2023 la Cina ha coperto il 70% della produzione globale di terre rare. L’Europa importa dalla Cina il 98% delle terre rare impiegate nelle produzioni a basso contenuto di carbonio.

Per superare il “collo di bottiglia” la UE ha adottato nel marzo 2024 il Critical Raw Materials Act, “per aumentare e diversificare l’approvvigionamento di materie prime critiche, rafforzare la circolarità, sostenere la ricerca e l’innovazione sull’efficienza delle risorse e lo sviluppo di sostituti”.
L’iniziativa va nella giusta direzione, ma allo stesso tempo è chiaro che gli obiettivi di decarbonizzazione a breve termine confermati e rafforzati (2030-2040) da Ursula von der Leyen non sono compatibili con i tempi di un’eventuale maggiore estrazione e lavorazione di minerali critici e terre rare da parte in Europa o nei paesi al di fuori della “rete internazionale dei minerali critici” della Cina.

Né è prevedibile che, nonostante gli investimenti pubblici ricevuti con Inflaction Reduction Act di Biden, le imprese “verdi” USA riusciranno a sostituire la Cina come fornitori dell’Europa.
E, come suggerisce Mario Draghi nel suo Rapporto, “Emulare l’approccio statunitense, che esclude sistematicamente la tecnologia cinese, probabilmente ritarderebbe la transizione energetica e quindi comporterebbe costi più elevati per l’economia europea.”
Sarebbe razionale ricostruire un’attiva cooperazione scientifica e tecnologica della UE con la Cina, per associare alla necessaria collaborazione commerciale lo sviluppo congiunto di soluzioni tecnologiche e gestionali per avvicinare l’economia globale all’abbandono dei combustibili fossili.

A questo fine l’Unione Europea potrebbe assumere come riferimento i criteri e gli obiettivi del Partenariato Strategico Globale Cina-Italia 2024-2027 sottoscritto a Pechino da Giorgia Meloni (innovazione scientifica e tecnologica- sviluppo verde e sostenibile).
Questa è la strada per trasformare la dipendenza in cooperazione.

5. Emissioni di CO2 e transizione energetica: uscire dall’ossessione dei targets

Dopo la “pausa” nei due anni della pandemia, le emissioni dall’impiego di combustibili fossili hanno ripreso la corsa raggiungendo il nuovo record di 38,2 miliardi di tonnellate.

La Cina è il paese con le più elevate emissioni (32%), seguita da USA (13%), India (8%) e UE (6,6%). Il restante 40% è distribuito tra il resto del mondo, compresi Russia, Indonesia, Brasile, Giappone.

Guardando “dall’interno” i dati, emerge che il trend di crescita delle emissioni nel 2024 è sostenuto dall’India e in misura minore dalla Cina, mentre è rallentato dalle riduzioni di Unione Europea (-9%) e USA (-4,1%) per effetto dalla crescita delle energie rinnovabili, della mobilità elettrica, dell’efficienza energetica.

Ma non solo UE e USA: i dati della Cina danno un’indicazione significativa perché mentre le emissioni sono aumentate, la Cina ha installato sia 1.200 Gigawatt di solare ed eolico raggiungendo con sei anni di anticipo l’obiettivo fissato per il 2030, sia 11 GW di nucleare. (Agenzia Internazionale dell’Energia. Crescono le emissioni me c’è una luce alla fine del tunnel? 2024).

Negli ultimi 5 anni gli investimenti nelle tecnologie a emissioni zero sono cresciute del 40% anno dopo anno, e hanno raggiunto 890 miliardi$ nel 2024.
La quota più importante delle esportazioni cinesi nel 2024 è costituita dai cosiddetti “Big Three” (pannelli solari, batterie, auto elettriche) con una tendenza di crescita annuale del 40% negli investimenti sulle tecnologie a emissioni zero. Le esportazioni sono dirette principalmente verso Arabia Saudita, Australia, Brasile, Canada, Cile, India, Indonesia, Pakistan.

Ovvero, dietro la crescita delle emissioni emergono il consolidamento e la competitività dei processi in corso per la decarbonizzazione e lo sviluppo accelerato delle tecnologie a basso contenuto di carbonio in molti settori strategici dell’economia globale, dall’energia alla mobilità, dalla produzione di acciaio alle costruzioni, dall’agricoltura alla grande distribuzione.

Il paradosso dell’Europa: l’economia più avanzata verso la decarbonizzazione e la meno competitiva nel mercato globale della decarbonizzazione.

La UE attualmente contribuisce al 6,60% delle emissioni globali, con un consumo pro capite di 5,60 tonnellate che è l’indicatore di elevata efficienza energetica dell’economia (in USA il procapite è di 14,95; in Russia 11,45; in Giappone 9,76; in Cina 7,44).

È evidente che la riduzione entro il 2030 del 55% delle nostre emissioni, mentre ha effetti marginali sulla riduzione delle emissioni globali comporta costi crescenti per un’economia che ha già raggiunto livelli elevati di efficienza energetica.

I targets vincolanti del Green Deal e le misure individuate per raggiungerli con l’indicazione delle tecnologie per raggiungerli (automotive) stanno mettendo in evidenza che
l’Europa non ha sviluppato le soluzioni adeguate e più avanzate per raggiungere i targets, ed è di conseguenza prevalentemente un importatore di materie prime e tecnologie;
gli obblighi per le imprese europee non sono previsti nelle altri grandi economie del pianeta, e di conseguenza hanno uno svantaggio competitivo nel mercato globale.

L’obiettivo del Green Deal era quello di raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050 con un pacchetto di misure in grado di associare la “crescita verde” alla competitività dell’economia europea.
I dati suggeriscono che – dopo 5 anni – l’economia europea è quella più avanzata verso la decarbonizzazione ma allo stesso tempo la meno competitiva nel mercato globale della decarbonizzazione.

Se consideriamo inoltre che lo svantaggio competitivo dell’Europa è aggravato sia dalla dipendenza dall’importazione dei combustibili fossili sia dal costo crescente dei danni provocati dagli eventi climatici estremi, emerge l’urgenza di aggiornare obiettivi e misure del Green Deal.

L’aggiornamento del Green Deal dovrebbe essere guidato da alcune linee prioritarie

Adattamento ai cambiamenti climatici e protezione del territorio.

Come descritto precedentemente, è prioritario il programma a lungo termine di interventi per mettere in sicurezza il territorio europeo dagli eventi climatici estremi e adeguare le infrastrutture alla “nuova normalità” del clima.

Concentrare e orientare gli investimenti europei in ricerca e sviluppo su soluzioni avanzate per la decarbonizzazione.

E’ necessario dare priorità a investimenti “mirati” per la progettazione e la produzione di soluzioni innovative rispetto a quelle già disponibili, e competitive nel mercato globale della decarbonizzazione.
Come ha rilevato Mario Draghi “la UE ha un importante programma per la R&I – Horizon Europe – con un budget di quasi 100 miliardi di euro. Ma è distribuito su troppi campi e l’accesso è eccessivamente complesso e burocratico. Inoltre, non è sufficientemente focalizzato sull’innovazione dirompente.”
L’Europa deve recuperare la capacità di valorizzare le competenze nella ricerca di base per sostenere lo sviluppo delle soluzioni e tecnologie finalizzate sia all’adattamento ai cambiamenti climatici sia alla decarbonizzazione: come ha rilevato von der Leyen “ la quota globale dell’Europa nelle domande di brevetto è alla pari con quella degli Stati Uniti e della Cina. Tuttavia, solo un terzo di queste viene sviluppato”
Questa è anche la chiave per dare concretezza alla neutralità tecnologica, ovvero alla condizione necessaria per garantire flessibilità nelle scelte per la riduzione delle emissioni in particolare nei settori industriali e dell’auto.

Introdurre meccanismi di flessibilità e premiali negli obiettivi e nelle misure del Green Deal

Gli obiettivi e le misure previste dal Green Deal e dal pacchetto legislativo approvato tra il 2021 e il 2024 dovrebbero essere ricondotti all’obiettivo originale che era quello di far convergere la crescita dell’economia verde con la competitività dell’Europa.
E’ necessario trasformare le misure “punitive” in stimoli positivi per la crescita sostenibile.
In questa prospettiva sarà opportuno accelerare la revisione prevista per il regolamento per le emissioni delle auto, la direttiva “case green”, il regolamento per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, il regolamento per il ripristino della natura.
Lo stesso sistema per lo scambio delle quote di emissione dovrebbe essere valutato in relazione allo svantaggio competitivo che non sembra compensato dal meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM)

Accelerare la realizzazione delle reti elettriche transeuropee

Le reti sono l’infrastruttura necessaria per assicurare la crescita delle fonti rinnovabili nel mix energetico europeo.
Sarà prioritaria la realizzazione dei 3 corridoi Nord-Sud Europa Occidentale, Nord-Sud Europa Centro Orientale, e Mercato Energetico del Baltico.
Promuovere la produzione europea di gas naturale ed energia nucleare, coerentemente con la “Tassonomia Verde”

L’atto complementare sul clima alla Tassonomia Verde del 2 febbraio 2022 inserisce l’impiego del gas naturale e dell’energia nucleare tra le attività possibili nella transizione energetica.
L’aumento della produzione europea di gas naturale (oggi pari al 14% dei consumi) e dell’energia nucleare (oggi il 24% dell’elettricità) ha l’effetto principale di ridurre la dipendenza e sostenere la crescita dell’autonomia energetica dell’Europa.
La crescita dell’energia elettrica prodotta dal nucleare contribuisce alla riduzione delle emissioni di CO2, e dunque è un pezzo importante per la decarbonizzazione dell’Europa.