È ora di superare l’ambientalismo ideologico

di Fabio Scoccimarro*

“La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico e nemico” afferma C. Schmitt nel “Le categorie del politico”. E sulla stessa dicotomia sulla quale si strutturano le identità, l’ambiente non è da meno: anche esso come tema è frutto di un mosaico personale e collettivo, quando ne serva piegare il significato ora nelle elezioni, ora nei dibattiti, ora nei media.

Saranno più di cinquant’anni che le categorie partitiche ricercano a suffragio delle loro visioni la genesi dalla classicità all’età moderna. Questo addebito culturale ha trasformato l’ambientalismo in uno strumento ideologico, spesso piegato a visioni globaliste e redistributive da una parte, e nazionalistiche e iper-regionalistiche dall’altra, entrambe lontane dall’essenza più profonda del rapporto tra uomo e natura.

Ma davvero possiamo accettare che il nostro rapporto con l’ecosistema si riduca a tutto questo? Quale potrebbe essere una visione equilibrata che contempli le istanze di benessere di una società con il suo diritto di crescita e determinazione nello scacchiere mondiale, con un utilizzo delle risorse del territorio senza depauperarlo?

La risposta pratica ancora nessuno l’ha trovata e fin tanto che questo non avviene, utilizziamo il senso della “transizione” per ricordarci che il percorso si fa in divenire. Tuttavia, credo sia opportuno considerare quali siano i termini entro i quali muoviamo le discussioni. L’ecologia di oggi con la quale ci si deve rapportare è un’eredità viziata vetero marxista, c’è poco da fare. Secondo De Benoist “i movimenti verdi presenti in Europa” sono (in parte) “(…) vecchi militanti dell’estrema sinistra che hanno trovato nell’ecologia un modo per superare le loro delusioni”. Le delusioni sono quel senso collettivo di azione di una rivoluzione rossa mai avvenuta, e che ora nel nome di una Terra superiore da proteggere può valicare i sensi di appartenenza religiosi, etnici, amministrativi. Questo diritto non verbale di ogni individuo a realizzare le sue potenzialità che troviamo peraltro, da Evola a Næss, si traduce però in un globalismo comunitario a cui non interessa così tanto trascendere la materia e parlare di metafisica con facilità, quanto più ad applicare sistemi risolutivi che ignorano le radici storiche, usi, costumi, tradizioni variegate, uniche ed estremamente complesse.

La sinistra ha reso l’ecologia una questione di giustizia sociale, incastonandola in un paradigma che punta alla redistribuzione delle risorse e all’abbattimento delle disuguaglianze globali. Sebbene queste istanze possano sembrare nobili, esse spostano il focus dalla natura stessa e la subordinano a obiettivi politici di trasformazione sociale.

Di “ambiente” qui c’è poco, come poco vi è nella “wilderness” pseudo bucolica per la quale i fiumi scorrono liberi e i pendii scoscesi lasciano intravvedere modellazioni millenarie di valli sulle quali gli elementi hanno levigato le loro forme. La natura produce frutti meravigliosi e bellissimi, ma nella sua essenza anche distruzione, morte, sofferenza.

No, non è un fatto di radicamento, quale appartenenza a un territorio e di rispetto per un ordine naturale che precede le costruzioni ideologiche: è semmai un fatto di realismo. Ogni comunità ed ogni nazione conoscono il territorio e le sue criticità tramandate da generazione in generazione e possono guardare alle soluzioni senza dover ricorrere all’universalismo progressista che ne muti la composizione sociale.

Non servono né coscienze collettive né una semantica identitaria per realizzare gli interventi a difesa delle infrastrutture e della popolazione; la redistribuzione del reddito, la lotta alle ineguaglianze e l’estensione dei diritti è altra cosa.

L’ecologia di destra è una difesa, in primo luogo, della specificità di ogni situazione, contro l’appiattimento imposto dal capitalismo globale, ma anche dall’universalismo progressista. Questa presa di posizione è però quasi più una forma di reazione al pensiero dominante ultraliberale che una tesi cosciente delle sue origini, di certo non metafisico-global-progressiste. Lo stesso De Benoist, nella già citata intervista nel numero di “Diorama” giugno-luglio 2002 afferma “L’ecologismo trascende necessariamente le categorie di destra e sinistra nella misura in cui – e questa è la sua caratteristica politica più interessante – esso è allo stesso tempo intrinsecamente conservatore e profondamente rivoluzionario.”

Una delle accuse più gravi che si possono muovere all’ecologismo di sinistra è l’aver profanato il carattere sacro della natura, trasformandola in un mero strumento di conflitto sociale, alienandola all’essere umano per diretta imposizione di senso di colpa collettivo. L’altra autocritica doverosa è stato lo sviluppo nemmeno nazionalista, bensì “localista”, di una corrente di destra per cui ogni situazione ambientale era da considerarsi fattore identitario settoriale e perciò da risolversi nell’area circoscritta del problema e basta. Così negli anni abbiamo dovuto convivere con due frange estreme: da una parte il piccolo riciclatore cittadino che utilizza il “noi”, inteso come specie umana, e quando si tratta di auto-responsabilizzarsi per l’aumento delle emissioni di CO2, ignora che il suo contributo di giovane delinquente ambientale sia infinitesimamente inferiore alle emissioni in atmosfera dei grandi giganti produttivi, dall’altra il cieco provincialotto incapace di connettere la natura condivisa di una questione ben più grande della sua piccola realtà.

Non sarà la missione di questo Governo, né mia, né di questa generazione, ma di certo nel prosieguo del dibattito in essere urge riconsegnare l’ecologia a un terreno di incontro/scontro meno polarizzato.

Per troppo tempo, la dialogica ambientale è stata monopolizzata da una sinistra che ha piegato l’ambientalismo ai propri scopi ideologici e una destra che l’ha rincorsa per ricostruirvene la paternità. Considerate le sfide che ci attendono, è tempo di uscire velocemente da questi preconcetti per esplorare quanto di meglio abbiamo da offrire come genio italiano alla nostra sopravvivenza.

*Assessore regionale Ambiente ed Energia Friuli-Venezia Giulia