
La lunga crisi dell’auto in Italia tra i dazi di Trump e la folle corsa all’elettrico
Al momento un’unica certezza: per il settore dell’auto in Italia il 2024 è stato l’anno più nero dal 1956. In termini di auto prodotte e per i bilanci delle aziende. Dalle fabbriche italiane sono uscite 476.090 vetture, il 36,5% in meno dell’anno precedente. Quando il target indicato dal governo appena l’anno prima era di almeno un milione di vetture. Quanto al dato delle immatricolazioni complessive, il calo è stato tutto sommato risibile: meno dell’1% per 1.577.751 di automobili vendute, contro 1.590.388 del 2023. Mentre in Europa le immatricolate sono state addirittura 10.632.381 in leggera crescita dello 0,8% rispetto all’anno prima, ma trainate dai veicoli che arrivano dall’estero, tra cui l’americana Tesla e la cinese Byd. Il che vuol dire che la grande crisi dell’auto interessa prima di tutto l’Italia.
Dove, secondo l’Istat la filiera dà lavoro a 559.868 addetti e il fatturato appresenta oltre il 5% del Pil nazionale (e il 7% del Pil dell’Ue). Una frenata di cui ha risentito principalmente Stellantis, che ha chiuso l’anno scorso con il -7,3% di immatricolazioni. Questo non vuol dire che gli altri gruppi europei se la passino bene. Volkswagen, pur avendo registrato un +2,5% di vendite, ha terminato il 2024 con un utile operativo a -15% e profitti netti giù del 30 per cento. Tanto da essere costretta ad annunciare un piano di risparmio da 15 miliardi annui con il taglio di 35 mila posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Bmw, nonostante si sia confermata leader nel segmento premium, ha avuto ricavi per 142 miliardi di euro, in calo dell’8,4% rispetto al 2023 e un utile prima delle tasse in flessione del 35,8% a 10,9 miliardi.
Da dove arriva, quindi, la crisi dell’auto? Per capirlo bisogna partire dal 2015 quando era scoppiato lo scandalo diesel, quello della falsificazione delle emissioni delle auto vendute da Volkswagen negli Stati Uniti e in Europa. La Cina stava già investendo allora pesantemente sull’auto elettrica, mentre in Europa se ne stava appena iniziando a parlare. Solo nel 2019, la Commissione Europea metteva sul tavolo il cosiddetto “Green Deal”, ovvero il piano per rendere l’Ue sostenibile e climaticamente neutrale entro il 2050. Poi nel 2020 è arrivata la gelata della pandemia, che ha bloccato tutto tra cui le vendite di auto. A cui si è aggiunta la crisi dei semiconduttori, ovvero dei chip che permettono il funzionamento delle parti elettroniche del veicolo. E l’aumento delle materie prime, dell’energia e della logistica aggravati dalla guerra in Ucraina del 2022.
Nel frattempo, il 14 luglio 2021, l’Ue approva le dodici direttive e regolamenti per la transizione verde. Una di queste prevede la riduzione del 100% alle “emissioni di Co2 per autovetture e furgoni” entro il 2035. In pratica, la fine del motore a combustione (diesel e benzina) per passare al full electric, con multe dal 2025 a chi non avrebbe iniziato ad adeguarsi. E questo senza nessuna seria politica industriale dedicata al settore. Dimenticandosi che per riconvertire la produzione servono investimenti in ricerca per creare nuovi modelli di auto efficienti e in infrastrutture come per le colonnine di ricarica. Insomma, una débâcle annunciata e poco capita da chi l’auto elettrica la dovrebbe comprare e cioè tutti noi. A tre anni dalla stretta del “Green Deal” i veicoli a batteria venduti in Europa sono stati 1.993.102, pari al 13,6% delle auto immatricolate. Mentre in Italia le vendite di bev sono state meno di 65 mila unità, con una flessione del 2% rispetto all’anno precedente arrivando appena al 4% del mercato.
A complicare ulteriormente la questione ci sono messi i dazi. Prima ancora di conoscere le mosse del presidente Usa Donald Trump, l’Europa ha cercato di mettere una stretta all’invasione cinese, imponendo dazi tra il 7,8% e il 35,3% a seconda del tipo di vettura. Grazie anche per il fatto di averci creduto massicciamente prima di tutti, la Cina è il primo produttore (ed esportatore) mondiale di veicoli elettrici. L’americana Tesla è la sola che riesce a competere con il gigante cinese Byd, che si sta imponendo anche in Italia. E il rapporto T&E stima che la penetrazione dei soli marchi cinesi nel mercato full electric europeo potrebbe raddoppiare entro il 2027. Anche nella produzione di batterie, la quota della Cina a livello globale è al 75% a fronte del 6% di Ue e Usa. E come se non bastasse Pechino detiene un forte vantaggio competitivo nella lavorazione del litio, del cobalto e della grafite sintetica, necessarie per i mezzi del futuro.
Ai problemi con la Cina si sono aggiunti più recentemente quelli con gli Usa e i dazi al 25% voluti da Trump. Alcuni numeri per capire le dimensioni dell’emergenza: nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato prodotti per il settore automotive per 474 miliardi di dollari, tra cui auto per un valore di 220 miliardi. Messico, Giappone, Corea del Sud, Canada e Germania sono stati i maggiori fornitori con quest’ultima che ha esportato quasi 450 mila vetture, per circa 24 miliardi. Il 43% delle vendite di Volkswagen, il primo produttore di auto in Europa, negli Usa proviene dal Messico, secondo le stime di S&P Global Mobility. E ancora: secondo uno studio di Oxford Economics, nel 2023 le case automobilistiche europee hanno esportato veicoli e componenti negli Usa per 56 miliardi di euro, pari al 20 per cento del totale delle esportazioni del settore. Si capisce, quindi, come le barriere doganali americani rischino di dare una seria mazzata all’industria dell’auto europea e italiana.
Cosa fare, allora? Per ora l’unica cosa che è riuscita a fare l’Europa è stata quella di rinviare le multe ai costruttori di auto per le emissioni di Co2 che sarebbero dovute scattare già quest’anno, in base al “Green Deal”. Ma ha confermato che la produzione dovrà essere a zero emissioni entro il 2035. Il 5 marzo l’Ue ha approvato un documento che prevede incentivi, a livello nazionale, per favorire la transizione energetica. Si parla anche di aiuti comunitari. Ma soldi al momento non se ne sono visti. Fatta accezione per lo stanziamento di 1,8 miliardi di euro, ottenuto prelevando risorse dal Fondo europeo per l’innovazione, che servirà a sostenere la produzione di batterie. A questo va aggiunta la promessa di ricavare un altro miliardo dal programma di ricerca Horizon Europe. Ma anche sommando queste due cifre, i soldi in arrivo da Bruxelles per far fronte alla crisi dell’auto sono meno di tre miliardi. Una cifra che impallidisce a confronto con i 100 miliardi di euro per il Clean Industrial Deal, ovvero il piano per decarbonizzare l’industria, e gli 800 miliardi per il ReArm Europe per potenziare il settore della difesa.



